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Immagine del redattoreMax Morini

NADINE di Elena Eluchans


Marco entrò nella bettola. Era piena di pensionati che giocavano a carte vociando e litigando. Il barista lo salutò con un cenno. C'era un odore di stantio che si mescolava agli odori della cucina e dei vecchietti. La bettola era scura ma stranamente accogliente, come se  la convivialità fosse proporzionale alla muffa sui muri, pavimenti non lindi e boccali di birra lavati male.

Nadine era seduta in un angolo cieco della sala, guardava una birra finita.

“Scopa! E pure la primiera!” Marco sentì urlare dalla zona dei giocatori.

Solo lei poteva scegliere un posto così incasinato per parlare.

Marco le si sedette davanti lasciandosi cadere pesantemente sulla sedia, mise la valigetta su uno sgabello, le loro ginocchia si toccarono e lui le strinse un polpaccio in segno di affetto.

“Come va?” le chiese, interessato al suo occhio nero e alle mani che giocherellavano nervosamente con un paio di occhiali da sole.

“Va”, disse lei dura, tastando la palpebra “L'occhio ha smesso di gonfiarsi”.

Lui si avvicinò per guardarglielo meglio, le pupille fisse da dottore.

Arrivò un cameriere, vecchio e invaghito di Nadine, che guardò dolente, quasi che il cazzotto l'avesse preso lui: un bruto aveva strapazzato il suo fiore prediletto.

Volutamente voltò le spalle a Marco, quasi che fosse responsabile di mancata protezione.

“Che razza di amico è? Se io fossi giovane...” pensò il vecchio stringendo i pugni, e parlò solo con lei che con sguardo birichino gli ordinò due birre.

Nadine, bisogna dirlo, era deliziosa. Piccola e bionda, con la pelle bianchissima e due occhioni scuri e luminosi come una notte stellata, una vera bellezza per molti, con il suo ancheggiare controllato e sensuale che faceva impazzire gli uomini.

Cominciò a parlare del fattaccio con Marco, il suo migliore amico ma anche il suo avvocato.

“Penso di denunciarlo” disse lei. Si riferiva a suo marito ma aspettava l'assenso dell'avvocato.

Arrivarono le birre e questa volta il vecchio guardò Marco con aperto sprezzo e se ne andò. A lui venne da sorridere: quanto amore! Sorrise anche lei, con gli occhi compiaciuti.

“Vuole che gli dia una lezione” disse Marco con una smorfia “Lo vuoi anche tu?” le chiese guardandola semiserio.

“Certo che no Marco, tu lo distruggi, hai fatto boxe! Meglio che lo denunci, non pensi?” Nadine chiese ammiccando, ancor più compiaciuta. La confortava che lui ci avesse pensato. Si curvò in avanti e gli accarezzò una mano.

Marco era una specie di contraltare di Nadine, alto, con un naso dritto, i capelli neri e occhi azzurri e intensi, la mimica canaglia di chi non prende niente troppo sul serio, un bell'uomo abituato a essere corteggiato.

Si conoscevano dai tempi del liceo. Erano stati insieme per gli ultimi tre anni, la prima volta per tutti e due, eletti la coppia più bella, anche se qualche invidioso li chiamava l'articolo il.

“Perchè no?” disse Marco, sebbene sapesse che non l'avrebbe mai denunciato. Nadine era più portata per le vendette personali, non legali.

Tipo lasciarlo, per esempio, o tradirlo col suo migliore amico, o abbandonarlo in mezzo a un bosco.

 

“Cos'hai combinato Nadine?” chiese Marco schioccando una guancia.

“Cos'ho combinato io, io?” s'inalberò lei sbattendo il boccale sul tavolo.

“Si, tu. Non ce lo vedo Giò che ti fa un occhio nero per vezzo. Qualcosa l'avrà pur tirato fuori, no?” insistette lui deciso.

“Niente, niente, niente! Non ho combinato niente” Nadine muoveva la testa per dare maggior enfasi al suo niente.

“Fai la brava, piccola” disse Marco e bevve un sorso di birra facendole l'occhiolino.

“Sentimi bene piacione, mi pento di non aver fatto niente, ma questo è” replicò lei secca e poi continuò: “Eravamo a una festa, sai, il suo amico Gianni, c'era un mucchio di gente e mi sono scontrata con Neo, il pittore, te lo ricordi? Mi sono messa a flirtare con lui, per gioco, sai come sono, ma niente di che. Di certo non siamo andati in bagno a scopare come si è messo in testa Giò!” concluse soddisfatta.

“Ah, ecco” disse Marco. E pensò a Nadine nella festa, circondata da uomini, eterna calamita delle voglie maschili.

Era così femminile, così civetta che si trovò ad ammirare Giò che l'aveva sposata. Ah, le donne belle, quanta energia si portano via. Devi tenerle sempre d'occhio.

“La napola! Ma proprio il cinque di quadri ti devi giocare?” un pensionato urlava incazzato al compare di gioco. Marco alzò gli occhi irritato. Nadine aspettò che tornasse il solito polemico brusio e riprese a parlare.

“Poi siamo tornati a casa. In macchina non parlava, a casa è scoppiato il finimondo”. Marco la seguiva concentrato.

“E' sclerato completamente, ha cominciato a darmi della zoccola, e io gli ho detto che allora lui era un cornuto in fieri. In fieri! Si è messo a urlare...”, bevve della birra e Marco dovette reprimersi per non ridere. In fieri, buon dio, solo lei poteva.

“E poi?” disse perchè lei si era incantata nel sentir urlare “Settebello!”.

“E poi mi ha cronometrata! Dice che sono stata venti minuti in bagno e guarda caso anche il pittore era sparito”. Lui s'immaginò la scena e la collera di Giò che aumentava sul tic tac dell'orologio. Gli sfuggì un sorriso.

“Che diavolo sei stata a fare per venti minuti in un cesso?” chiese Marco perplesso. Lei scosse le spalle con fare indifferente.

“Nei cessi si chiacchera” riprese “Ci siamo scambiate un rossetto io e una signora, qualche consiglio estetico, il tempo passa. E purtroppo non ho incontrato Neo nel corridoio” concluse lei e bevve un sorso di birra.

Marco si distese sulla sedia.

“Va bene” disse “Lui è geloso e tu sei innocente. Ma perchè il cazzotto? C'è qualcosa che salti Nadine?”. Marco si aprì la giacca, si allentò la cravatta, faceva caldo.

“Non salto niente, ci sto arrivando!” disse lei e inaspettatamente scoppiò a ridere, senza alcuna gioia. Poi la sua faccia ritornò seria e incattivita.

“Sai caro” riprese leziosa “Alla decima zoccola...” riscoppiò a ridere, “Sembro Fantozzi” disse assumendo la postura del comico.

“Per niente” pensò Marco. Ma rise, era divertente.

“Alla decima zoccola gli ho dato una sberla bella forte e anche dell'impotente di merda”, si toccò l'occhio, le faceva male, “Da lì il cazzotto, mio genio; ora ti sei fatto il quadro?”.

Se l'era fatto. D'altronde non s'era immaginato niente di molto diverso.

Marco si alzò di colpo e disse: “Usciamo, non ne posso più di questo casino”. Lei disse va bene e inforcò gli occhiali neri.

Fuori l'aria era ancora fredda e tutti e due si strinsero nella giacca, c'era vento.

La puzza, il rumore, le macchine li fecero fuggire verso un parco.

Era vuoto, si sedettero su una panchina. Stava tramontando.

I rumori si erano attutiti e Nadine ricominciò a parlare. Aveva un tono più roco, una cadenza triste e si tolse gli occhiali.

“Non ti ho detto tutto” sospirò guardando gli alberi. Erano già verdi.

Marco le mise un braccio sulla spalla e l'attirò a sé. Lei si accomodò fra le sue braccia e cominciò a piangere. Lui le baciò la testa e la strinse di più, i singhiozzi aumentarono.

Marco soffriva nel vederla piangere, non succedeva da anni e provava una pena infinita per la sua fragilità così ben dissimulata.

Provò anche una collera montante per Giò, finì ogni specie di comprensione maschile per la sua paranoia, la sua gelosia debordante e il suo schiacciare Nadine e la sua spontanea sensualità.

Era sicuro che lei non l'avesse mai tradito, lo amava; certo a modo suo, ma era pazza di lui.

Nadine piano piano smise di piangere.

“Cos'è che non mi hai detto?” chiese Marco inquisitorio. Lei tentò di ricomporsi e lo guardò coi suoi occhioni tristi.

“E' brutto“ disse e abbassò le palpebre come se si vergognasse. Tuttavia continuò.

“Quando mi ha tirato il cazzotto sono finita per terra...e quando ero a terra mi ha riempita di calci”.

Marco scattò in piedi come una molla. “Cristo” disse, “Io lo disfo questo figlio di puttana!”. Aveva gli occhi duri come sassi.

Lei si alzò e dolcemente lo prese per un braccio, voleva farlo risedere. Lui lo fece riluttante, aveva ancora le mani strette a pugno. Ma era preoccupato.

“Ti sei fatta vedere?” le chiese.

“No”, rispose lei, “Sono solo indolenzita e un po' blu, qua e là”.

Calò il silenzio.

Poi Marco prese le mani di Nadine: “Cos'hai intenzione di fare?” le chiese.

“Sai caro” gli rispose lei, “Le sue botte sono state la conclusione di un lungo tirocinio verbale...sarcasmi, doppi sensi, insulti; ero comunque stanca anche senza questo drammone finale, e qualcosa mi si è rotto dentro quando ero per terra, con sopra un codardo che urlava e tirava calci”.

“Quindi?” premette Marco stringendole una mano.

“Quindi lo lascio, l'ho già lasciato” sentenziò lei.

Lui tirò un sospiro di sollievo. Insieme si alzarono dalla panchina, stava imbrunendo.

“Andiamo” disse Marco.

“Dove?” domandò Nadine.

“Prima dal dottore e poi a casa mia” rispose lui.

“E le tue donne?” chiese lei dubitativa e lui sorrise: “Per un po' faranno a meno”.

Il parco stava per chiudere, si avviarono all'uscita con Nadine appesa al braccio di Marco.

 

 

Nadine si svegliò in una casa silenziosa, conosciuta. Il sole filtrava dalle tende e si guardò intorno. La stanza degli ospiti di Marco era arredata in maniera spartana. Un armadio, un tavolino con due sedie, due letti singoli, un muro intero foderato di libri. Anche un tappeto persiano che ricopriva una parte del parquet, l'unico tocco stiloso.

Scese dal letto e si mise a gambe incrociate sulla sua lana morbida e colorata.

Cominciò a pensare a Giò. Alla prima volta che l'aveva visto in un lunapark, quattro anni prima. Era vicino alle montagne russe, alto e magro, con spalle larghe e capelli lunghi, legati in un codino.

“Aspetta qualcuno?” si chiese Nadine, che aveva paura di salire sola sulle montagne russe, ma anche molta voglia.

Poi lui si girò e la vide. Aveva un viso lungo e scavato, capelli folti, lisci e neri, una fronte spaziosa, le sopracciglia spesse, un naso ingombrante, leggermente aquilino, un'ombra di barba, due occhi che ridevano e il sorriso timido di chi timido non è.

Nadine disse di si prima che lui glielo chiedesse.

“Posso salire con te?...ho paura” rispose lei al suo sguardo invitante e adorante. Lui la prese per mano e si sedettero veloci nelle cabine che si stavano muovendo. Si sentivano molti gridolini acuti a ogni saliscendi e la musica assordava.                             

Giò e Nadine si presentarono urlando il loro nome.

Poi lei, che si sentiva svenire a ogni discesa e chiudeva gli occhi, gli si avvinghiò addosso e nascose la testa sotto la sua ascella. Lui rimase imperturbabile e se la tenne stretta.

Scesero e andarono a sparare ai barattoli. Girarono per il lunapark soli fra la gente, si guardavano, non parlavano, si annusavano, la notte era scura ma le luci mulinanti e lo zucchero filato la coloravano.

Dopo mezz'ora erano in macchina a scopare.

Nadine sorrise al ricordo. Non poteva dire che con Giò fosse stato amore a prima vista, non era così romantica, ma desiderio si.

Lo aveva desiderato quand'era ancora di profilo, lui sembrava aspettarla.

Poi s'era girato e la sua vita era cambiata.

Quel sorriso maledetto, quella fossetta sul mento, quegli occhi scuri e ridenti che sembravano attraversarla e che tradivano una grande sicurezza di sé.

E questo piacque a Nadine che amava gli uomini con una mascolinità ben vissuta.

E amò all'istante quel volto intrigante, che guardava e poi riguardava, mai sazia dei suoi lineamenti.

Giò era uno scultore, le sue mani magre e lunghe modellavano qualsiasi materiale. Modellavano anche Nadine quando facevano l'amore.

Lei pensò a quante volte lo avesse guardato dormire e quanto lo aveva amato.

Ricordava i primi tempi, quando la casa sembrava una piazza d'armi, gente che entrava, ragazzi e ragazze, gente che usciva, lezioni di scultura, modelle di cui Nadine era gelosa, quella moretta che gli stava appiccicata come una cozza, modelli di cui Giò era geloso.

Ma anche tante risate, buffet improvvisati da Nadine, infiniti discorsi d'arte che lei seguiva, curiosa di capire quello che forse capito non aveva mai.

Ogni tanto lui la prendeva da parte per sussurrarle: “Ti amo Nadine, sei la mia unica musa”.

O piuttosto: “Andiamo su Nadine, una sveltina, nessuno se ne accorgerà”.

Qualche volta lo fecero. Ma naturalmente tutti se ne accorsero e sghignazzarono.

Poi, piano piano le cose erano cambiate...

Nadine sentì la porta aprirsi. Marco. Fuori orario.

Era contenta di disfarsi dei ricordi. E uscì dalla stanza e corse verso di lui e gli saltò in grembo per abbracciarlo.

“Che ci fai qui a quest'ora?” gli chiese allegra.

“Non avevo niente da fare” le rispose lui baciandola sulla tempia.

Poi la mise giù. Aveva la faccia stanca.

“Ho fame” disse Nadine ridendo, era così felice di vederlo. Temeva così tanto la solitudine e i pensieri che portava con sé.

“Ok, usciamo, c'è una buona trattoria dietro l'angolo e ha i tavolini fuori, c'è un sole che spacca...così ti puoi tenere gli occhiali...”. Marco voleva convincerla ma lei scosse la testa, un'ombra era passata sul suo viso.

“Non voglio uscire” disse decisa “E poi sei il single col frigo più rifornito che conosca. Faccio da mangiare”.

Nadine si avviò verso la cucina. Marco la prese per le spalle e la fermò.

“No. Pognosi di dieci giorni. Devi riposare. E' meglio se cucino io”.

“Io sono più brava” sorrise Nadine.

Il compromesso era cucinare insieme e così fecero. Mangiarono in silenzio, con rock anni '70 di sottofondo, l'unica musica che Marco ascoltasse oltre la classica. Rigovernarono sempre in silenzio. Ognuno era perso nei propri pensieri ma erano insieme lo stesso.

Poi Marco si diresse verso la sua stanza: “Ho un po' di mal di testa, vado a sdraiarmi”.

“Posso venire anch'io?” chiese Nadine.

“No!”

Lei gli fece la linguaccia e tornò nella sua stanza. Si rollò una canna e si rimise a letto. La fumò e pensò a Marco; gli era venuto il mal di testa per colpa sua, lo aveva incastrato con le sue fregnacce per metà della notte.

Nadine si sentiva protetta dalla sua amicizia. Da sempre, ma ancor di più da quando si erano lasciati, appena messi i piedi nell'università. In perfetto accordo, entrambi e allo stesso tempo si erano innamorati di altri. Erano così simili d'altronde, anche nella tempistica.

Ma l'amicizia era continuata, anzi si era rafforzata. Erano diventati l'uno il complice e confidente dell'altro: quante volte si erano parati il didietro reciprocamente.

Nadine era orgogliosa del suo amico e pensando questo si appisolò.

Si risvegliò un paio d'ore dopo, aveva la bocca secca e andò in cucina a bere.

Marco dormiva ancora. Aprì piano la porta, lo spiò. Dorme alla grande mezzo nudo ha il sonno pesante non se ne accorge nemmeno se m'infilo nel suo letto. E così fece.

Ora si sentiva meglio. Nadine si accorse di essere regredita all'infanzia, aveva paura e andava a dormire nel lettone.

Lui si mosse e allungò le mani, cominciò a carezzarle un seno. Nadine s'irrigidì e gli disse: “Che fai?”.

Lui si svegliò di colpo, la guardò quasi spaventato, poi si sedette sul letto e si mise a urlare.

“Nadine, io sono un uomo! Non ti puoi infilare nel letto di un uomo che dorme e sperare che non allunghi le mani! La mamma non te l'ha insegnato?”. Lei si sfilò rapida, si sentiva umiliata, gli chiese scusa e lasciò la stanza.

Rientrò nella sua e si mise a cercare un libro da leggere. Tirò fuori Pessoa e sentì bussare alla porta.

“Entra” gli disse Nadine e Marco entrò. Si guardarono un attimo e lei aprì il libro a casaccio. Lesse: “Benedetti siano gli istanti, i millimetri e l'ombra delle piccole cose” e come a un segnale scoppiarono a ridere insieme.

 

 

Il giorno dopo, verso le tre, suonarono alla porta.

Nadine era in cucina. Cominciò a tremare. Le cadde il pentolino. Le salì la nausea. Si sentiva soffocare. Il cuore andava a cento. Le sudavano le mani e la fronte.

Si accovacciò per terra contro un mobile. Continuava a tremare.

Pensò: “Basta basta basta paura basta paura ora se ne va se ne va basta basta”.

Fece molti respiri lunghi e profondi. Il tremolio diminuì. Allungò le gambe. Guardò il pavimento a scacchi.

Risuonarono.

Il capogiro continuò per un poco, poi mani e fronte smisero di sudare e il cuore smise di correre.

La crisi era finita in fretta. Nadine si rialzò cauta e vacillò appena. Si raddrizzò. “E' stato” si disse. Passò lo straccio sul latte che s'era sparso.

Suonarono di nuovo, a lungo.

Questa volta la curiosità potè più della paura e andò a guardare dallo spioncino.

“Non è Giò” pensò con sollievo che sfogò in un sospiro: “Una donna fuma col bocchino tailleur elegante con quel naso aquilino sembra Anouk Aimée in che film mah in un film importante donna interessante”.

Nadine richiuse lo spioncino e aprì.

“Buongiorno” salutò.

La donna sorrise e la indicò con l'indice laccato di rosso.

“Tu!” disse, “Stupenda! Questo Marco non detto”. Rise. “Io sono Ljuba, lui è in casa?”.

“Sta dormendo” disse Nadine e pensò “Accento russo?”.

“Tu svegliare” disse Ljuba.

“Sveglialo tu” si negò Nadine.

Lei allora attraversò la porta in modo fluido e sicuro e andò a bussare alla stanza di Marco che non diede segni; Ljuba entrò e richiuse la porta.

Nadine tornò nella sua camera, voleva ascoltare, spiare. Ma fu silenzio. E ancora silenzio. “O non parlano o bisbigliano” pensò Nadine e riprese in mano Pessoa. Aprì il libro a caso e palpitò di nuovo: Il canto delle muse, la 'loro' ode a se stessi: le chiamano 'carnali'...si mise a pensare a Giò e alle poesie che lui le leggeva, era bravo a interpretarle, sapeva dar loro voce e vita, come alle sue sculture. “Oh Giò” pensò “Perchè l'hai fatto?”.

Di colpo sentì parlare forte, e anche ridere. Era russo.

Dopo un po' Ljuba uscì dalla stanza e andò a bussare a quella di Nadine.

Lei aprì e Ljuba le disse: “Tu, Nadine, stasera vieni mangiare con noi!”.

“No...grazie” disse lei intimidita, ritraendosi un poco.

Marco urlò dalla stanza: “Accetta Nadine, con lei ci si diverte”.

“Non voglio uscire con l'occhio nero e neanche con gli occhiali, lo sai” urlò a sua volta Nadine.

“Peccato!” disse Ljuba e si avviò alla porta.

“A presto” e se ne andò.

Nadine corse nella camera di Marco.

“Portentosa!” gli disse ridendo, “Dove l'hai pescata?”.

“Nel mio sottobosco russo”.

“Beh, proprio sottobosco... va in giro con un tailleur da cinquemila euro!”.

“Lavora al consolato” ammise Marco, “E' arrivata da poco...cinquemila?” chiese stupito.

“Tu!” disse Nadine con l'indice puntato “Stupenda! Questo Marco non detto!”. Rideva, e anche Marco, Nadine era sempre stata brava nelle imitazioni.

Poi lui cambiò argomento: “Ljuba dice che ci hai messo tanto ad aprire, se ne stava andando. Dormivi?”. Gli occhi la interrogavano sospettosi.

Nadine impallidì e si sedette sul letto. Raccontò a Marco dell'attacco di panico. Lui la guardò preoccupato.

“Facciamo così” disse “Se non esci con noi non esco neanch'io, non mi va di lasciarti sola, e se ti prende un altro attacco?”.

“Non mi prende nessun attacco... Non possiamo invitarla qui?” chiese Nadine cercando d'essere conciliante.

“Noo, lei vuole gente intorno, feste, è sabato...in poco tempo è diventata molto popolare, sai?”.

“Ci credo” sorrise Nadine, “Trasuda vita”.

Squillò il telefono di Marco e lui cominciò a parlare russo. Lei capiva solo quando diceva dà, dà.

Riattaccò. E le sorrise. “C'è una soluzione” disse “Andiamo a una festa mascherata, già mangiati, Ljuba arriva più tardi con i travestimenti per tutti e tre”.

Nadine si ribellò: “Ma perchè non mi lasciate in pace? Cos'è, bisex?”.

“Non lo so” disse lui sorridendo “Le piaci, questo è vero, perciò vuole distrarti. E' generosa, guardalo in questa luce”.

“Va bene” disse alla fine “Ma io faccio da mangiare. Qualcosa di buono. Sai cosa le piace?”. E intanto si mise un grembiule.

“Va pazza per le lasagne, poi non so. Ah, pasteggia a vodka, mettine una nel frigo”.

Un po' prima di cena arrivò Ljuba con due borsoni enormi. C'erano i vestiti e un assortimento di trucchi da far invidia a un make up artist.

Nadine li divorava con gli occhi, adorava truccarsi.

E Ljuba la truccò. Prima le sbiancò faccia e collo con una specie di biacca e poi le fece nero anche l'altro occhio, che venne uguale uguale...

Nadine si guardò allo specchio e fece qualcuna delle sue boccacce. Si piaceva un mondo e mandò un bacio a Ljuba mimandolo con le sue labbra dipinte di nero.

Marco le disse: “Sei quasi orrenda”.

Poi si sedettero per cenare. Il profumo del cibo riempiva la casa.

Ljuba mangiò le lasagne con voracità, erano venute buone.

“Nadine, anch'io una volta occhio nero” le disse e fece il gesto del pugno “Ma a me non importare perchè volevo lasciare fidanzato”.

Nadine se ne stette zitta e pensierosa e questo irritò Marco.

“Tu problema perchè amare marito, più difficile” continuò Ljuba e si bevve un bicchiere di vodka.

“Fra una settimana occhio guarito, ma cuore no. Tu aspettare. Finchè cuore non guarito, non fare decisioni”. Si riempì di nuovo il bicchiere.

Nadine s'intristì. Ripose il tovagliolo guardandolo concentrata.

“Per guarire devi distrarre, sennò ti deprimere e tu non depressa, solo disperata”.

Nadine scoppiò a ridere, questa era bella.

“Tu non ridere. Depressione inguaribile. Disperazione passare quando torna speranza e speranza torna, tu giovane”. Lo disse conclusiva.

Si alzarono, avevano finito.

Nadine s'infilò il suo vestito da fantasma, si ripassò il rossetto nero e aiutò gli altri a mascherarsi: lui era un frate e lei una cortigiana veneziana. Risero molto e canneggiarono altrettanto.

Uscirono ch'era buio, attraversarono mezza città e alla festa Marco e Ljuba tennero d'occhio, a turno, Nadine.

Ritornarono a casa tutti e tre ubriachi: era stata una bella serata.

 

 

Intanto che Nadine usciva di casa senza occhiali, bella come il sole che le indorava i capelli, Giò si aggirava per lo studio con la barba lunga, gli stessi stracci che non cambiava da due settimane, e da tanto non si lavava, e puzzava come un uomo delle caverne.

C'era la mostra tra poco, tutto era pronto meno lui.

Si passò le dita fra i capelli sporchi e spettinati, si era tagliato il codino.

 

Nadine non è qui e Marco quella merda che la rivuole tutta per sé e io che rivedo le stesse immagini sempre lei per terra e io che le tiro calci ma non l'avrà mai lei sarà sempre mia e lei che urla Giò e io che mi tornano gli occhi e vedo quello che sto facendo sei un codardo mi ha detto il suo sguardo e anch'io lo penso meglio morire e io invece ho preso la porta e sono andato a ubriacarmi e poi lei non c'è più gli armadi vuoti e anche la valigia grossa sparita si è portata via il passaporto e ha lasciato la chiave sotto lo zerbino si farà un viaggio con quella merda che la rivuole tutta per sé ma non l'avrà mai e lei per terra che urla Giò e io mi risveglio io che volevo farle male quando gli occhi erano andati e non ci vedevo e sono pazzo mi domando tutto il giorno lei mi lascia se sono pazzo lei mi ha già lasciato non mi perdona nemmeno io mi perdono mi manca mi manca le tue braccia morbide che mi stringono le tue colazioni nella cucina piena di sole quel tuo ombelico quel tuo nasino che arricci Nadine ho perso il controllo ascoltami Nadine come quando giocavamo e tu sapevi quello che pensavo e io sapevo quello che pensavi tu ricorda Nadine ricorda quando pensavo di scoparti e tu che parlavi cominciavi a balbettare e poi mi guardavi incazzata e dicevi smettila io ti amo Nadine io non ti lascerò mai andare e mia sorella che mi dice il vostro è un amour fou un amore malato brutta troia moralista che non ti sei fatta una scopata vera in tutta la tua vita l'intensità è quello che chiami fou tu che ti fai tre docce al giorno per paura di sentire il tuo odore oh Nadine ho sentito urlare Giò Nadine Giò e io ch'ero accecato ti ho vista e sono scappato per andare a ubriacarmi mi manca il tuo sorriso è un sole che rischiara il mio buio dov'è il tuo cuore Nadine che io sentivo battere e la tua testolina che sentivo pensare mi manchi Nadine io ti sento urlare Giò e mi risveglio e scappo da te e scappo da me da questa ombra che non si leva di dosso e quello lo odio non gli sembra vero che può prendersi cura di te io che non sono stato capace e gli spaccherò quella sua faccia di merda ma anche tu Nadine sei gelosa ricordi quando entravi nello studio di colpo per controllare le modelle e mi volevi sempre vicino e anch'io ti volevo a portata di mano e poi cos'è andato storto tu hai cominciato a lavorare io sono un'antropologa c'è un'offerta da un centro di ricerca mi hai detto e poi ci vediamo solo la sera e io che vengo a prenderti all'ufficio e tutti i tuoi colleghi che ti vogliono scopare e io sono geloso e anche tu perchè non mi puoi più controllare e cominciamo a litigare e io che avevo paura di perderti e anche tu che gridavi ti piace quella zoccola coi capelli neri e io ti leggevo le poesie le senti oltre la pelle fin dentro le ossa ma poi dormivamo nello stesso letto ci siamo sempre ritrovati a letto e bastava sfiorarci e il cuore si apriva ma poi io diventavo aggressivo che paura di perderti Nadine come con quel maledetto porco debosciato di Neo che non smettevi di fare la civetta e io ti odiavo ma poi tu hai urlato Giò e io sono tornato io mi sono risvegliato e ho avuto paura di me e sono scappato e sono andato a ubriacarmi.

 

Gianni si aggirava al piano di sopra. Era più piccolo di Giò, una faccia banale nobilitata da due occhi acuti, che s'agganciavano agli occhi altrui. Erano cresciuti insieme, la stessa scuola d'arte, lui un pittore e un caratterino.

Si decise a scendere e aprì la porta energico, senza bussare. Giò era sdraiato sulla branda, in un angolo. Gianni dovette districarsi fra le sculture per raggiungerlo.

“C'è una fragranza in questa stalla...” e scosse Giò che rimase immobile e sdraiato.

“Fatti una doccia, porco, e poi cambiati i vestiti e vai dal parrucchiere. Non fai nemmeno più pena, fai schifo!”.

“Si, faccio schifo” convenne Giò senza muoversi.

Gianni lo prese per le spalle: “Tirati su, tanto per cominciare”. Giò lo fece e finì per mettersi in piedi, lo sguardo ancora sperduto.

“Ora spogliati” gli disse Gianni e Giò si spogliò silenzioso e obbediente. E finalmente andò sotto la doccia.

Gianni aprì le mezze finestre del seminterrato, voleva far uscire quel fetore. E mise i vestiti in un sacco.

“E' ora di reagire Giò” gli disse quando tornò profumato, rasato e con l'accappatoio.

“Hai la mostra fra due settimane, ti devi mettere in movimento. Adesso andiamo dal parrucchiere, ci devo andare anch'io. Poi vai alla galleria. Ci siamo?”.

“Ci siamo” rispose Giò che si era tonificato e ora guardava l'amico quasi divertito.

“Sembri mia madre” gli disse.

 

 

Neo teneva d'occhio la casa dal piccolo parco in cui faceva avanti e indietro. Le imposte erano spalancate. Da quella prospettiva non poteva sfuggirgli chi entrava e chi usciva.

Si sedette su una panchina, si accese una sigaretta, continuò a guardare.

La casa era silente, sembrava vuota e forse lo era.

Forse stava solo perdendo tempo, ma non convinto si mosse verso il bar ch'era dietro la panetteria.

Era la sua zona, anche da lì teneva sott'occhio la casa, niente poteva scappargli.

Ordinò un cappuccino e si mise a sedere su uno sgabello di fronte al barista. Lo conosceva, ogni tanto ci veniva in questo piccolo locale.

Era eccitato, forse un bicchiere di vino sarebbe stato meglio, per calmarsi.

Chissà perchè poi si agitava, non stava facendo niente di male. Si spostò i capelli dietro l'orecchio quando il barista arrivò col cappuccino.

“Ho cambiato idea” gli disse “Portami un bianco”. Il barista glielo portò.

Lui prese il bicchiere e uscì per fumarsi una sigaretta. Lo fece senza perdere d'occhio la casa.

Rientrò e pagò, poi uscì e tornò al piccolo parco. Si accese un'altra sigaretta che in realtà era una canna. Non succedeva niente, riprese a fare avanti e indietro inalando il fumo con tutti i polmoni e ascoltando gli uccellini cinguettare.

Gli era entrato un sassolino nella scarpa. Resistette per un po' ma gli dava fastidio.

Si sedette sulla panchina e si tolse scarpa e sassolino. L'entrata era ben visibile.

Si alzò, era troppo irrequieto per stare fermo. Riprese a camminare nel parco, spense la canna finita. Passò un cane con un padrone. Il cane lo annusò e il padrone lo strattonò.

Annoiato ritornò al bar, ordinò un altro bicchiere di vino. Questa volta lo fece tintinnare con un altro astante, seduto di fianco, un pelato già ubriaco a mezzogiorno. Si scambiarono qualche parola sul tempo e il caldo fuori stagione.

Poi Neo mise i soldi sul bancone, si rialzò e uscì. Guardava sempre la casa e rimase appostato contro un muro accendendosi ancora una sigaretta. Fu lì che sentì reboare una macchina e nel contempo una porta aprirsi.

 

 

“La mia piccola Nadine!” sentì dire dietro di lei uscendo dal panettiere. Si voltò cercando la faccia di Neo, aveva riconosciuto la sua voce di basso. Lo vide.

“Neo!” disse lei “Che ci fai qui?”.

“Abito vicino” rispose lui. La guardava con un sorriso innocente, era felice di vederla. Si avvicinò e la baciò sulle guance. Lei ricambiò.

Camminarono insieme verso la macchina di Nadine, lui le prese il sacchetto che teneva in mano e guardò dentro.

“Pane” disse lui “Perchè invece non vieni a pranzo con me? Mi ha detto Gianni che stai da Marco e di giorno lui non c'è. Che ne dici?” propose fermandosi e prendendola per un braccio. Anche lei si fermò.

“Ah, te l'ha detto Gianni” Nadine arricciò il naso “Voi pittori siete delle portinaie”. Risero accostando le teste.

Neo sembrava il fratello ruvido di Nadine, coi suoi capelli biondi, lisci, tanti, che gli arrivavano sotto le orecchie, che lui scostava spesso. E quegli occhi scuri, che bramavano tutto e tutti. Era un trasandato con un buon odore di colori, pennelli, sapone e solventi.

Arrivarono alla macchina e lei mise il pane dentro. Sbattè la portiera.

“Va bene” disse “Andiamo a pranzo insieme”.

 

 

Si accomodarono al sole, fuori dalla trattoria. Ordinarono. Poi lui le chiese “E' vero che stai divorziando?”.

“Chi lo dice?” rispose lei irritata dalla brezza che faceva volare i tovagliolini.

“Il mondo è piccolo, le voci corrono...”.

“Che voci corrono? Chi le fa correre?” s'incazzò Nadine mettendo un tovagliolino sotto il piatto.

“Indovina” disse lui “Corre voce che avete litigato e vi siete separati”.

“Sempre Gianni?” disse lei.

“E chi sennò? Ha la lingua lunga e gli sei sempre stata sulle palle...”.

“Vero” disse lei pensierosa “Secondo lui sono la rovina di Giò, ma pensavo che almeno per amor suo si facesse i cazzacci suoi. Invece no!”.

Arrivò il vino e lui riempì i bicchieri. Il suo lo tracannò.

“Stai divorziando o no?” le chiese guardandola con curiosa intensità. I suoi occhi s'impiantarono in quelli di lei come alberi. Era il suo sguardo da pittore, che rovistava negli altri alla ricerca di emozioni, in questo caso della sensualità di Nadine.

“Non lo so Neo, ancora non lo so. Per ora mi sto prendendo tempo. Per ora sto pensandoci”. Lei guardò nel vuoto, come a ricordare.

Vedere Neo le aveva riportato in un colpo solo il volto di Giò che urlava incazzato contro di lui. Sentì un dolore al cuore e cominciò a bere.

“Beh, quando avrai deciso per il si ricordati di questo tuo grande fan, il più fanatico fra quelli che ti corteggiano” disse lui e un occhio cominciò a fremere, tic che gli veniva quand'era eccitato.

“Me ne ricorderò” rispose lei facendogli un sorriso e riempiendo di nuovo il bicchiere, quasi con rabbia.

“D'altronde tu sei stato la causa del nostro litigio, sai?”.

“Davvero?” disse lui improvvisamente felice. Si accese una sigaretta, allungò le gambe che toccarono quelle di Nadine. Lei le spostò appena.

Allora c'è speranza, pensò fra sé e se stesso, Giò non è geloso a caso... E si accarezzò una guancia per sfregarsi la barba che stava crescendo.

Mangiarono, bevvero, Nadine si rilassò un poco sebbene il suo dolore rimanesse sotto pelle a ricordarle che niente era ancora finito. Bevve ancora, voleva ubriacarsi un po'.

Si lasciarono abbracciandosi e scambiandosi i telefoni.

“Un giorno ti mostro il mio studio” le disse lui andandosene “E' dietro l'angolo”.  Lei gli sorrise facendogli segno di sì. Gli soffiò un bacio, Neo le era sempre piaciuto.

 

 

Nadine suonò e Ljuba aprì. Era la loro quarta lezione di russo e si accomodarono sul tavolo rotondo di un monolocale enorme e ricercato, tra lampade e antiquariato, tappeti e tende setose. Nadine era brilla dopo il pranzo con Neo, ma rimase attenta e ancora sorpresa dal buon gusto dell' amica. Dopo mezz'ora di ripasso Ljuba si mise a ridere.

“Tu troppa memoria, già imparato trenta parole, pronuncia perfetta, tu sapere russo in due mesi!”. La luce del pomeriggio riempiva la stanza, le dava brio.

“Speriamo” disse Nadine senza entusiasmo e indifferente al sole. Era triste. Neo aveva riportato a galla l'incubo di quell'ultima notte a casa.

E ora sentiva come fossero suoi  i pensieri di Giò, la sua folle confusione. Sospirò e continuò a scrivere. Certo non era il russo a preoccuparla, sapeva districarsi fra le lingue.

Fecero una pausa per il caffè. Ljuba che la vedeva opaca chiese a Nadine: “Ti mancare tanto?”.

E fu come schiacciare un bottone: Nadine scoppiò a piangere.

“Si, tantissimo!” disse fra i singhiozzi. Ljuba le accarezzò le mani: “Tu amare ancora troppo, povera piccola”.

“Ma io non perdonare” rispose Nadine ridendo fra le lacrime e imitando Ljuba che tornò indietro nel tempo: “Tu come mia nonna” disse “Tu ridere e piangere, piangere e ridere, uguale lei”. Era nostalgica, Ljuba, quasi intristita dal ricordo.

“Ti porto in una bettola” le disse Nadine che si alzò di colpo asciugandosi gli occhi con un braccio “Vestita come sei, bella elegante, Mario se lo merita”.

E così tornò dove tutto era cominciato, col vecchio felice di vedere Nadine senza l'occhio nero e colpito da Ljuba cui fece un inchino ammirato dicendo: “Che bella signora hai portato, Nadine”.

Ljuba gli sorrise, allungò una mano e lui gliela baciò. Nadine era deliziata dalla scenetta e si mise ad applaudire. “Te l'ho detto Ljuba, Mario è l'ultimo gentiluomo”. Lui le sorrise, tornò professionale, prese gli ordini e se ne andò. E loro cominciarono a chiaccherare fittamente. Finchè tornò Mario con due birre. Ljuba chiese dove fosse il bagno e lui l'accompagnò.

Nadine ascoltava: il brusio dell'angolo scopa d'assi si tacitò quando passò Ljuba. A nome di tutti uno dei pensionati disse: “Bella donna! Complimenti signora!”. Nadine sorrise. Ljuba era come un cristallo in un negozio di elefanti.

 

 

Ero così sicura quando ho detto a Marco lo lascio l'ho già lasciato così incazzata e ferita e non solo per l'occhio nero e i blu sulle gambe e le braccia e il dottore che dice s'è caduta dalle scale signora erano scale clementi non ha preso gradinate sulla testa su nessun organo vitale sarcastico amico di Marco che per un pelo non mi sono messa a ridere ma ho tenuto il punto è falsa testimonianza mi sgrida Marco perchè pensavo di denunciarti Giò ma poi non l'ho fatto la vendetta è mia mi è sempre piaciuta ma poi Ljuba mi chiede ti manca tanto e come una granata mi è esploso il pianto urgente e rivelatore come la verità che mi manchi Giò ma questo non ti assolve perchè mi hai fatto paura ho tremato di paura ma ora ho nostalgia ma ma ma abbiamo bisogno di tempo Giò non per quello ch'è successo ma per come ci siamo arrivati stare da soli Giò ripensare alla nostra gelosia a quella paura di perderci al possesso a tutto oh Giò dobbiamo crescere fra due settimane hai la mostra e io non ci sarò e quella scultura che mi hai dedicato quella col pancione e ti ho chiesto perchè mi fai prendere la pillola se vuoi un figlio e tu non ancora non sono pronto non eri mai pronto per niente forse neppure io anche se pensavo di si e ora ora devo tematizzare tutto di nuovo pure il sesso e il desiderio questo mistero penso che mi licenzio ho altri progetti di lavoro ma dov'è Ljuba me l'hanno rapita invidio come sa divertirsi è l'eccesso bello sposata con due figli grandi chi l'avrebbe detto ah eccola che torna si è rifatta il trucco.

 

Ljuba si sedette sorridente.

“Che postaccio coinvolgente Nadine!” le disse.

E Nadine applaudì di nuovo.

“Corretto madame, non hai fatto errori”.

E così  dicendo fece un cenno a Mario che arrivò. Ordinò degli affettati.

Disse a Ljuba: “Ho fame, spero anche tu”.

 

 E mangiucchiando e bevendo ripresero a chiaccherare.

“Mi fai curiosa” disse Ljuba masticando “E se ti chiedere: chi è Nadine?”.

“Che domanda difficile“ rispose lei ingoiando del prosciutto e facendo una smorfia. “Racchiude tutte le domande. Cosa vuoi, cosa fai, perchè lo vuoi, perchè lo fai”.

Bevve poi si mise a guardare in alto come a ricordare, come fanno i bambini.

“Nadine è una stronza che dice quello che pensa. Anche quando non potrebbe. O non dovrebbe. La lingua non ha ossa ma se le fa rompere, mi ripeteva il nonno quando ero ragazzina. Voleva avvisarmi, povero. Inutilmente. Nadine è intelligente, simpatica, colta, ha un codice, coerente, generosa, bella”. E scoppiò a ridere. “Modesta no, ma vendicativa si e gelosa, possessiva, ossessiva, incoerente, tormentata, violenta. Ingenua. Amo vivere, Ljuba, con tutti i pro e contro. E quello che desidero di più è il desiderio, perno su cui gira la mia esistenza. Soddisfatta?”.

“Neanche un po'!” rispose Ljuba addentando un pezzo di pane. “Parlami della tua famiglia”. Nadine si rimise a guardare verso l'alto. “Oh, una famiglia normale, mio padre medico, mia madre insegnante, un fratello e una sorella, io ultima della covata, un po' la cocca di papà, mi lasciavano fare tutto, forse perchè ero incontenibile. Perciò politica, Marco, sesso, sigarette e canne. E i nonni, mio rifugio. E loro si amavano, erano divertenti anche quando litigavano. Una vita come tante, Ljuba”.

Arrivò Mario con un vassoio di affettati e due birre che non avevano ordinato. “Offerta dei giocatori scopa d'assi” disse lui sorridendo. Nadine si spostò e fece un cenno di ringraziamento al più sfacciato. Mario se ne andò e Ljuba si avventò sul prosciutto.

“Posso fare domanda indiscreta?” chiese Ljuba. Nadine assentì con la testa.

“Tu mai violentata?”. Nadine impallidì,  i suoi occhi diventarono più scuri e cadde nel passato.

“Perchè tu bella, piccola, fragile, preda facile per uomo codardo”.

Nadine prese le mani di Ljuba e le strinse quasi frenetica: “Non lo sa nessuno, nessuno, nemmeno Marco. Un mio compagno di università grosso, puzzone, orrendo, mi ha buttata a terra, mi ha messo una mano sulla bocca e mi ha stuprata. Marco era in Germania in quel periodo e sono caduta in depressione. Il porco nel frattempo era sparito. Non ho potuto nemmeno fargliela pagare”.

“Non denunciare?” chiese Ljuba.

“No. Non volevo renderlo pubblico, erano cazzi miei”.

“Perchè non denunciare? Ti vergognare di una vergogna che non essere tua. Lui doveva pagare” disse Ljuba battendo una mano sul tavolo.

“Lo so, ma non volevo essere additata. Certo che mi vergognavo. Ero una vittima. Mi vergognavo di non averlo capito per tempo. Mi vergognavo di non aver potuto reagire. Mi vergognavo”. Aveva la faccia rigata da lacrime silenziose.

“Ti fa bene parlare, vero? Non volere fare male più di quello fatto” disse Ljuba con apprensione.

Nadine si asciugò le lacrime, le accarezzò le mani e le disse: “Mi fa bene. E' la prima volta che lo faccio, sento come un peso che si sta dissolvendo, il cuore più leggero, come  se gli avessi tolto una spina. Ti sono grata, ti amo Ljuba” e le diede un bacio sulla guancia.

Ljuba le disse: “Io anche ti amare. Mi dispiace Nadine”. Lei sospirò e le chiese: “Come hai fatto a intuirlo?”.

“Forse esperienza, lavorare per due anni in centro donne abusate, venire sesto senso”. Le sorrise consolatrice. E Nadine ne fu consolata: si era liberata di quel peso scuro che si era tenuta dentro tutti quegli anni.

 

Era d'estate e io ero in giro con un gonnellino e una maglietta scollata che sia stato quello a fargli venire l'idea non lo conoscevo un granchè dovevo solo prestargli un libro così al telefono poi è arrivato e non mi ha neanche salutata mi ha spinta per terra e ho tentato di urlare ma lui mi ha tappato la bocca e s'è sdraiato con tutto il suo peso su di me e sentivo il suo cazzo duro che premeva il suo corpaccione che mi schiacciava la sua manona che mi soffocava ho pensato di morire poi s'è tirato fuori il coso mi ha strappato gli slip io che mi dimenavo ci provavo ma era come avere addosso un camion poi ha tentato di mettermelo dentro ma io avevo la figa secca e non scivolava allora l'ha fatto con più forza finchè il cazzo non è entrato era un dolore insostenibile cercavo di urlare di respirare pensavo adesso mi soffoca mi aveva preso il terrore e lui che mugolava mi dava della troia mi chiedeva ti piace zoccoletta e io che avevo gli occhi appannati e lui che faceva su e giù finchè non ha sborrato e io che mi è venuta la nausea lo schifo poi se ne è andato minacciandomi e io sdraiata quasi svenuta che sentivo la sborra uscire e ho vomitato e poi non mi sono mossa per una settimana mi faceva male camminare continuavo a lavarmi la figa perchè sparisse la sporcizia non riuscivo a togliermi di dosso quel cazzo  Lo volevo cercare e riempire di botte con le mie mani finchè non mi avesse restituito quello che era mio incubi tieniti il tuo cazzo e ridammi la mia figa bastardo te lo stacco e lo butto come un osso a un cane che tu possa morire ma poi arrivò l'inverno e una coltre di neve ricoprì il mio corpo grande Ljuba che me l'ha tirato fuori ch'erano anni che non ci pensavo ma era ancora lì nascosto e senza saperlo mi vergognavo ancora e ora che l'ho detto mi sento liberata dal peso mi sento ch'è passato che non è più presente che non mi vergogno più sento che potrei dirlo a chiunque e non mi fregherebbe oh cara grazie grazie grazie.

 

 

Marco tornò dal lavoro e trovò tutte le luci accese, la radio a tutto volume e Nadine un po' brilla che canticchiava e cucinava battendo il tempo.

Appoggiò la valigetta e la guardò sorridente. Lei andò ad abbracciarlo forte, a lungo, fu lui a staccarla.

“Cos'è successo?” le chiese andando nella sua stanza e cominciando a togliersi veloce giacca cravatta camicia scarpe calzini e pantaloni: s'infilò la tuta.

Marco detestava i vestiti da lavoro, la mia mascherata diceva lui e se li tolse come fossero appestati. Detestava anche il suo lavoro da penalista.

Non sapeva se fosse diventato cinico per causa propria o per effetto del mestiere. Un tenero cinico, diceva Nadine che lo guardava dalla cucina eseguire il suo rito quotidiano.

Marco finì e tirò un bel sospiro di sollievo. Gli piaceva essere a casa e che lei girasse il sugo. Tornò in cucina.

“Allora? Cos'è successo?” chiese lui sfilando una patatina dalla busta.

“Di tutto, di tutto!” esplose lei con una risata e continuò “Hai notato che certi giorni sono densi di scoperte... rivelazioni...è stata la giornata più strana...più rocambolesca...più bizzarra...dall'inizio alla fine!” concluse Nadine spegnendo il fuoco e girandosi a guardarlo.

“Non è ancora finita!” sorrise lui “Non dire quattro finchè non l'hai nel sacco”.

Lei lo guardò scuotendo la testa.

“Era gatto...voglio dire...non quattro”.

“A me l'hanno insegnata così” disse lui prendendole le guance e baciandola sulla bocca. Era un bacio amicale, a fior di labbra, ogni tanto se lo davano.

“Su! Racconta” la spronò Marco andando a stiracchiarsi sul divano. Allungò un braccio e spense la radio. Era a piedi nudi.

“Prima di tutto ho visto Neo fuori dalla panetteria. Pare che abiti qui vicino”.

“Abita dietro l'angolo” confermò Marco “Sono andato a vedere il suo atelier, una volta, con un'amica. Lei gli ha pure comprato un quadro, fa dei nudi niente male. Ogni tanto lo incontro anch'io”.

Cominciò a rollarsi una sigaretta e la guardò curioso.

“Neo...Neo...” disse cercando di ricordare “Non è a causa sua che avete litigato, tu e Giò?”.

“Si” disse lei secca, togliendosi il grembiule e mettendo le mani sui fianchi.

Lui fischiò e si mise a ridere.

“Chissà come sarebbe contento Giò...Neo camminerebbe in ginocchio per te...E' riapparso il terzo incomodo” disse Marco in un soffio, ancora sorridendo.

“Il terzo incomodo sei tu!” Nadine scoppiò in una risata beffarda.

“Comunque” continuò lei “Siamo andati a pranzo insieme, m'ha invitata a vedere il suo studio...”.

“Ma va!” si sbellicò Marco rotolandosi sul divano ma lei l'ignorò seccata.

“Ti ha invitata a vedere il suo studio!” disse con faccia ghignosa.

“...Mi ha raccontato un po' di pettegolezzi pittoreschi...”.

“Tipo?”.

“Tipo che sto divorziando, tipo che sto da te...”:

“E non è vero?”.

“Che sto da te si, che sto divorziando...oh Marco...ancora non lo so”. Lo guardò un po' addolorata ma lui ricambiò con uno sguardo severo.

“Cos'altro è successo?” la incitò con un'occhiata seria.

“Ero un po' brilla e un po' triste. Vedere Neo mi ha fatto rivivere la lite passo per passo. Poi Ljuba mi ha chiesto se Giò mi mancava e sono scoppiata a piangere.

Mi manca Marco, più di quanto voglia ammettere” lo disse con la voce rotta e si mise a piangere di nuovo, come nel pomeriggio, intercalando il pianto con il riso.

Marco se la tirò su di sé e lei gli pianse sul collo singhiozzi inconsolabili. Lui le accarezzava la testa silenzioso.

Pensava a quando Nadine aveva pianto un addio, due settimane prima, nel parco.

E a come questo fosse il pianto del ritorno, anche se lei non lo sapeva ancora.

Questa costatazione gli strinse il cuore, gli sarebbe mancata.

D'altronde il rapporto fra i due pazzoidi, anche Nadine lo era, lo aveva sempre spiazzato. Lui non s'era mai innamorato così, nemmeno da ragazzo, nemmeno di Nadine. Sapeva che la sua razionalità un tanto cinica si sfracellava di fronte a loro due come entità.

Ma la sua parte più egoista si rammaricò molto, avere Nadine intorno lo deliziava. Avrebbe sofferto senza questa quotidianità.

“Marco” lei gl'interruppe i pensieri “Non ti ho detto tutto”.

Questa frase gliela l'aveva già sentita e si accigliò. Sembrava un dejà vu.

E fu così che lei prese a narrargli la vecchia storia della violenza carnale.

Lui sbiancò, diventò rosso di rabbia, si torse le mani, la guardò come se fosse il colpevole.

“Mio dio” disse Marco “E io che non me ne sono accorto”. Si alzò di scatto.

“Non potevi” ribattè lei che l'inseguì “Era un mio segreto”.

“Si che potevo” disse lui voltandosi con uno sguardo ferito “Ti avevo trovata depressa quand'ero tornato, avrei dovuto capire ch'era successo qualcosa di grave. Merda!”.

La strinse forte per consolarsi poi chiuse gli occhi e le disse “Perdonami”. Lei gli baciò gli occhi che aveva chiuso. “Mangiamo?” gli domandò.

 

 

La giornata era splendida, calda. Lei s'era alzata di buonumore, contenta d'essere viva.

Fece un respiro profondo quando uscì di casa in jeans, maglietta e zainetto.

Si avviò a piedi verso il centro. Incrociava gente, uomini che la guardavano e si giravano, macchine che rumoreggiavano. Via via che s'avvicinava le vetrine s'infittivano, cominciò a guardare i negozi e ne vide uno etnico, con tanti caftani appesi fuori.

Li tastò, erano di un cotone sottile, entrò. Ecco quello verde acqua, finemente ricamato. Se ne innamorò e lo provò. “Veste bene” si disse e non se lo tolse. Fece mettere jeans e maglietta in un sacchetto. Ora sentiva l'aria rinfrescarle le gambe.

Uscì e pensò di regalarsi la manicure, la pedicure, il parrucchiere, un massaggio fatto da Giulio.

Pensare a lui la fece sorridere. Era un agitato gay che si lanciava in esclamazioni fiorite quando la vedeva. Aveva le mani di velluto. Un tocco forte ma non brutale, un massaggio ch'era un viaggio nel piacere.

Entrò e sentì gli odori soliti di shampoo, sapone, oli, lacche, il caldo dei fon sempre in funzione, il brusio basso ma persistente.

Giulio la vide e le fece un inchino elegante: “Cara Nadine, mio angelo custode, mia bella musa, vieni per il massaggio?” le chiese.

“Vengo per tutto” sorrise lei ma lo seguì nel suo camerino. Si stese nuda sul lettino e cominciò a sentire le sue mani oliate distenderle i muscoli che aveva così tanto contratto nelle ultime settimane.

“Come va cara?” gli chiese lui delicato.

“Va bene Giulio, mi sto separando” disse lei.

“Oh no cara!” disse lui massaggiandole la testa “Separarsi da Giò? Impossibile, im-pos-si-bi-le, credimi cara. Lui è trooppo affascinante!”.

“Vedremo” disse lei con un tono di sfida, godendosi le sue dita sulla nuca.

Si rialzò alleggerita, stava bene nel suo corpo, voleva volare.

Poi andò dalla manicure, la pedicure, il parrucchiere.

Quandò uscì era quasi buio, si sentiva come un serpente che avesse cambiato pelle.

Fece qualche altra piccola spesa.

I negozi cominciavano a chiudere, lei aveva fame ed entrò in una trattoria. Si mangiò un piatto di pasta.

“Ma che bella giornata!” si disse asciugandosi la bocca con un tovagliolo.

Fuori s'era rannuvolato, non c'erano stelle , guardò il cielo preoccupata.

Riprese la strada di casa e camminò, camminò, a volte saltellando. Aprì le braccia in un moto di gioia e una passante le sorrise.

Vide un lampo, il cielo era scuro, annusò l'aria di pioggia, accelerò il passo, non era lontana, forse ce la faceva.

I tuoni aumentarono e cominciò a piovere a dirotto.

I capelli cominciarono ad appiccicarsi alla testa, tanti saluti alla piega, e pure il vestito, così leggero e intriso d'acqua, le si attaccò al corpo.

Vide la casa di Neo, c'era passata davanti all'andata. Una fioca luce era accesa, scostò il pesante cancello e rapida, con i sacchetti in mano, attraversò il giardino sotto il diluvio e arrivò alla porta. Bussò piano.

 

 

Neo aprì. Le sue pupille si dilatarono e la guardò come una apparizione.

Lei era fradicia, coi capelli gocciolanti attaccati alle guance, il caftano verde attaccato al corpo, i capezzoli che spuntavano sull'attenti.

“Neo” disse lei appoggiando i sacchetti per terra.

“Nadine” disse lui con un sorriso ammirato e allungando una mano “Sembri un quadro”.

L'abbrancò e la tirò dentro. Si scontrarono e si baciarono con tenerezza, a lungo, come fosse un bacio antico, sognato da tanto.

Poi lei cominciò a tremare dal freddo, lui la portò in mezzo allo studio, le tolse il vestito, aveva solo gli slip, tolse anche quelli, lanciò tutto su un cavalletto. Corse in bagno, prese un asciagamano gigante e la coprì tutta. Si mise ad asciugarla, a sfregarla, ogni tanto le tirava fuori la testa per baciarla, lei rideva e le piaceva.

Lui era in maglietta bucata e jeans, sporco di colori, faceva le prove coi pennelli sulle mani. Prese due bicchieri da un armadio, una bottiglia di whisky, li riempì e ne mise uno nelle mani di Nadine.

“Per scaldarci” le disse intanto che lei si spostava sulla poltroncina avvolta nell'asciugamano. Anche lui si sedette.

Nadine si guardava in giro, era uno studio enorme e pieno di cose. Bevve avidamente. Si sentiva un poco a casa.

“Quando hai scoperto di essere un pittore?” chiese a Neo curiosa, non sapeva niente del suo passato.

“A cinque anni ho costruito il mio primo rudimentale atelier nel granaio di famiglia” disse lui ingollando il suo whisky “E la tua immagine sulla porta me la ricorderò finché vivo, potrei dipingerla a memoria”.

Si alzò, le prese una mano, la tirò in piedi, la portò in un angolo dello studio. Accese un faretto che l'illuminava tutta.

Lei sapeva cosa voleva ma provò lo stesso a scoraggiarlo.

“Io non sono una brava modella, Neo, non so tenere la posa, mi muovo troppo”.

Lui la zittì con un cenno, poi la prese e la spostò su un lettino in pelle.

La fece sedere , le spinse le gambe contro il busto, le mani che afferravano le caviglie, la testa appena piegata di lato.

“La mia piccola Nadine” disse lui voluttuoso “La tua preziosa, piccina, deliziosa patatina” e le sorrise sfacciato guardandola fra le gambe.

Intanto spostò il cavalletto e cominciò a giocare coi colori. Lei nonostante le proteste stette ferma.

“A sette anni, tutte le bambine che volevano vedere il mio studio dovevano baciarmi” continuò lui dando qualche pennellata.

“E a dodici?” chiese lei.

“A dodici dovevamo farmi vedere un seno. Oh quelle tettine che spuntavano, che godimento” ripose lui ricordando “A quindici cominciarono a posare per me, non nude, quello più tardi, ma discinte si”.

Lei rideva e cambiò posizione. Scattò in piedi, si avvicinò a lui e guardò il primo abbozzo del disegno. Le piacque.

“E la tua prima mostra?” chiese lei.

“La prima volta a sedici anni. Ero stufo che le modelle per vergogna si portassero via i quadri. Così li ricuperai tutti e mi misi a venderli nel cortile della scuola. Ebbi subito un grande successo, andarono a ruba, quanti soldi con cui comprarmi i colori! A vent'anni feci la prima mostra in una galleria” concluse lui.

“Però!” disse lei e gli tolse il pennello dalle mani.

Lui se la tirò a sé, spense il faretto, la baciò e la portò sulla branda.

 

 

“Non era la bella biondina, l'artista?” sbottò il trasportatore guardando Giò come fosse un intruso.

Lui era sulla porta, camicia bianca e jeans, aveva in mano il cellulare, stava parlando con Aida. S'interruppe per dire all'uomo: “No, sono io lo scultore, aspetti un attimo, sto parlando con la gallerista”.

L'uomo si sedette sul muretto, si accese una sigaretta e si voltò a guardare i ragazzi sul furgone alzando gli occhi al cielo.

Giò rientrò, riprese a parlare, accese anche il caffè.

“Cazzo Aida, non potevi venire anche tu? Sai che io non mi fido di questi spacca cose, ancora mi risuona il cavallo alato andato a pezzi! Se non vieni tu a controllare io ci rinuncio!”.

“E io ti ammazzo!” gli gridò lei “Sono tre giorni che mi sto sbattendo, ti ho mandato i miei ragazzi migliori!”.

Aida dall'altra parte del filo faceva avanti e indietro nella galleria vuota fremendo di rabbia. Odiava Giò in quel momento.

“E' completamente impedito! Senza quella smorfiosa non si raccapezza!” si disse togliendosi le scarpe coi tacchi, le facevano male, e cominciando a posizionare mentalmente i pezzi.

Gli disse: “Entra nella tua catacomba con gli operai che ti ho mandato e fai uscire una per una le tue fottute sculture! Per le cinque devono essere qui! Hai capito?”. Scandì le parole con ferocia.

“Si!” disse Giò e la sentì riattaccare. Bevve il caffè, poi uscì. Fece scendere i tanti ragazzi nello studio e disse loro: “Imballate tutto quello che vedete e portatelo via”.

E poi sparì, non voleva assistere e andò in camera. Detestava veder impacchettare i suoi lavori, detestava i tric trac col mondo, detestava staccarsi dalle sue opere.

Allungava le orecchie col terrore di sentire sfracelli.

Dopo tanto, tanto tempo, finirono.

Giò scese nello studio. Accese le sparse luci al neon, così fredde che aumentarono la sua solitudine. Le sculture erano sparite, c'era uno spazio vuoto, gli si strinse il cuore ma l'anima si dilatò e cominciò a volare.

E fu catapultato nella sua infanzia, in piazza della Signoria, mano nella mano col nonno. Fu allora che avvenne.

 

Il nonno era un avvocato in disarmo, con baffi e cappello, grande cultore d'arte, mi portava in giro per l'Italia per curare la mia educazione estetica, come la chiamava lui. Fu lì che avvenne tutto. Davanti a quel corpo nudo, enorme, bianco.

“E' bellissimo!” dissi io bambino, coi pantaloni corti, guardando sbalordito quella meraviglia.

“Come si chiama?” chiesi con un tremolio al nonno.

“E' il David di Michelangelo” rispose lui “Michelangelo è lo scultore”.

“Scultore” ripetei fra me.

“David è l'eroe biblico” continuò il nonno “Cinque e rotti metri d'altezza, tre anni per scolpirlo”.

Il nonno parlava, parlava, raccontava aneddoti e dettagli.

Io invece guardavo silenzioso, immaginavo di scalargli le gambe, al gigante, di toccarlo, di scrutarlo negli occhi per vedere se anche lui mi scrutava. Immaginavo di essere io quel David, di entrargli dentro, di farlo muovere. Lo vedevo chinarsi e scendere nella piazza, lo vedevo accarezzarmi la testa.

Avevo le palpitazioni e una euforia incontrollabile.

Sognavo di occupare tutto il suo spazio, di essere vivo in lui. Fu una emozione mai provata, mi spaventava, ma non riuscivo a scollare gli occhi da quel marmo bianco.

D'improvviso mi misi a ridere dalla felicità, cominciai a girare su me stesso come una trottola, la piazza girava anche lei e io caddi per terra.

Il nonno non sembrava preoccupato, mi rialzò, mi pulì, forse era anche orgoglioso perchè mi disse: “Mio piccolo David, andiamo in pasticceria a berci una cioccolata, meriti un premio”. Poi mi spiegò cosa m'era successo.

Ma io già lo sapevo, erano le mie emozioni, ho sentito d'esistere. Ho sentito che non era certo un mondo piatto quello che vedevo, ma da sempre tridimensionale. Che non erano corpi vuoti quelli che incontravo, ma sculture piene.

Fu davanti a quella statua che avvenne tutto.

 

Giò ritornò al presente e riguardò lo studio vuoto. Spostò un pezzo di marmo ch'era in un angolo e lo trascinò al centro. Lo toccò, lo accarezzò, chi sei tu? Chiese al blocco informe. E cominciò a parlargli come fosse Nadine.

“Tu non c'eri oggi a consolarmi della perdita, tu che te ne sei andata. Mi è mancato il tuo charme, il tuo piglio nel dare ordini, la tua protezione. Mi sei mancata tutta. Anche tu sei dentro di me da quando sono nato, anche tu fai parte del mio profondo più scuro e della mia altezza più luminosa. Sei il mio unico amore, la mia unica scultura che ha preso vita”.

Si sentì sperduto, solo, pianse silenziosamente.

Poi guardò il pezzo di marmo: c'era una sola soluzione: ricominciare.

Prese il telefono e chiamò Gloria.

“Sii?” disse lei col suo tono svogliato.

“Sono Giò. Non è che stasera saresti libera? Un paio d'ore di lavoro, ho bisogno d'avere intorno una modella”.

“Si, sono libera” disse lei finendo un boccone “Ci vediamo dopo cena”.

 

 

Ljuba entrò nella galleria. Era piena di gente. Notò subito Giò, il divo della mostra. Era circondato da ragazzi che lo chiamavano maestro e gli parlavano tutti insieme. Un volto interessante. Che sorrideva solo con le labbra, gli occhi esausti come dopo un lungo pianto.

Lei era in missione, ma ci sarebbe venuta comunque. Era troppo curiosa di quest'uomo che teneva il cuore di Nadine con due mani.

“Vai alla mostra e poi mi racconti?” le aveva chiesto lei.

Ljuba aveva accettato subito. E ora era lì.

Qualcuno le mise un bicchiere in mano. In un angolo c'era un buffet assaltato per lo più dai ragazzi. Il brusio si percepiva. Anche i commenti favorevoli.

La galleria era grande, divisa da pannelli in tre spazi. Cominciò a guardare le  sculture. E a spiare Giò.

Erano opere piuttosto originali, usava materiali diversi, spesso mescolati fra di loro. Molti bronzi, molto ferro, ma anche terracotte, gessi, granito, pietra, marmo. Pensò che fosse molto fisico fare lo scultore e guardò i bicipiti di Giò, ben disegnati sotto la camicia. Era magro ma muscoloso. Si, decisamente attraente. Ora capiva. Lui si accorse d'essere guardato e si girò. Ljuba spostò velocemente lo sguardo sui muri, pieni di schizzi, disegni, bozzetti appesi.

La gallerista, donna matura e sofisticata si fermò a parlare con Giò, era raggiante per il successo, si vedeva. Poi lo lasciò e le passò accanto lasciando una scia di chanel numero 5.

Ljuba si concentrò sulle opere.

Pensò che lo scultore ha un'ambizione enorme, trasmettere l'anima a una pietra, farla traspirare.

Un'anima carnale, la sua, sensuale, che trasudava anche dal ferro. Riguardò Giò e questa volta lui la beccò, ma lei non spostò gli occhi.

Invece si girò, lo sguardo le cadde sull'unica scultura che c'era dietro l'ultimo pannello.

Era quella che stava cercando: di marmo, Nadine accovacciata in posizione fetale, una mano su un ginocchio, l'altra sul ventre gravido. Era bella e indiscutibilmente lei. Un po' inquietante, come un feto dentro un feto, pensò Ljuba. Allo stesso tempo passava un senso di purezza. Poteva esistere una purezza inquietante? Quasi che Nadine dovesse ancora nascere per far nascere. Era questo che lui pensava?

Tre signore si misero dietro a contemplare la scultura, ma dissero solo bella, bellissima... In quel momento entrò Marco. Ljuba si spostò dietro il pannello, non voleva essere vista.

Marco si mise in un angolo aspettando Giò, che arrivò.

“Sei venuto a vedere la mia mostra?” gli chiese ironico.

“Sono venuto a spaccarti la faccia. Ma poi mi son detto, perchè fargli pubblicità gratis?” rispose lui e Giò sorrise.

“Allora che cazzo vuoi?”.

“Rimandare la rissa a un momento migliore. E per ora dirti di stare lontano lontano da Nadine. Tu avvicinala, toccala con un dito e io ti ammazzo”.

Una ragazza tirò la giacca di Giò e lui le disse impaziente: “Arrivo!”. E si rivolse a Marco di nuovo. Sorridendo.

“Sei venuto a minacciarmi. Il caro amico”. Marco sorrise a sua volta e disse: “Tu hai bisogno di una lezione e io intendo dartela”.

Giò fece una risata.

“Lo penso anch'io, tutto il giorno”,

Ljuba li aveva visti sorridere ma il loro corpo diceva altro. Diceva repulsione, collera, frustrazione. Per un attimo pensò che si sarebbero menati. Ma non successe niente. Marco semplicemente se ne andò. Giò rimase fermo, un attimo pensieroso. Ljuba uscì da dietro il pannello e lui la guardò.

Questa volta si diresse verso di lei spedito. E questo Ljuba non se l'aspettava. Le venne vicino, le chiese: “Le piace molto quella scultura?”.

“Si, bellissima. Quasi pensare di comprare”.

“Lei è russa!... Ma non è in vendita” disse Giò e continuò “E' da quando è arrivata che mi guarda. Non ho potuto fare a meno di notarlo. Posso sapere perchè?”.

Ljuba scoppiò a ridere: “Per suo grande fascino o perchè sono spia russa, no?”. Lui sorrise e le chiese: “Sta bene Nadine?”.

Lei si bloccò e deglutì

“Non sono un mago signora. Vi ho visto insieme oggi in centro” disse lui. Lei si diede per vinta e disse: “Sta bene fisicamente”.

“Un modo gentile per dirmi che il segno delle botte è andato via?”.

“Anche” disse lei. E si compresero.

Passò l'uomo dei bicchieri e Giò ne prese due. Ne passò uno a lei e poi le chiese della mostra.

“Si, mi piacere tue opere, tu bravo scultore. Piene di linfa, di vita, di luce. Forse troppa, a volte questa energia turbare...” si toccava i capelli, sorrideva dicendo quel che pensava.

La ragazzina che lo aveva tirato per la giacca venne a riprenderselo e lui disse alla russa: “Dica a Nadine...niente...piacere di averla conosciuta...signora?”.

“Ljuba” rispose lei e gli diede la mano. Lui tirò fuori un biglietto da visita e glielo porse. Lei fece altrettanto. Lui lesse consolato russo e disse: “Interessante. Ho avuto la proposta di una mostra da un gallerista di San Pietroburgo. Può essere che ci rivediamo”. Le fece l'occhiolino e se ne andò con la ragazza.

Ljuba pensò che questo successo gli avrebbe ridato la sicurezza persa, il ritorno alla vita. Dopotutto era un artista. C'era d'aspettarsi una evoluzione negli eventi, dentro di lui c'era già stata.

 

 

Suonarono alla porta. Questa volta Nadine sapeva chi fosse ma guardò lo stesso dallo spioncino.

Il cuore le sobbalzò. Il corpo le si espanse.

Jeans e la giacca grigia che gli ho regalato io sta bene coi capelli corti è dimagrito ha gli occhi tristissimi esausti come dice Ljuba.

Non aveva più paura.

“Aprimi Nadine, lo vedo che mi stai guardando” disse Giò con voce sorridente.

E Nadine aprì.

“Cosa sei venuto a fare? A finire il lavoro?” lei arricciò il naso.

“Se pensi questo perchè mi hai aperto? Voglio solo parlare”.

“E quando mai noi abbiamo parlato?” replicò lei.

“Sempre. Ma senza parole” disse lui.

Nadine tacque, pensò e si spostò per farlo passare. Giò entrò e si chiuse la porta dietro. Si guardarono a lungo immobili e muti.

Poi lui allungò una mano per carezzarla ma lei indietreggiò. Lui ritentò e lei indietreggiò di nuovo. Lui l'incalzò, lei non si mosse.

Prese la mira e con un gesto fulmineo gli diede una sberla sonante, gli occhi fissi nei suoi. Lui incassò in silenzio.

“Non provarci a toccarmi” gli disse Nadine, lo sguardo pieno di sfida.

Ma lui non l'ascoltò. D'impulso la prese per la vita, l'alzò e la trasportò contro il muro.

Poi crollò in ginocchio, le mise le mani sui fianchi, mise la guancia sul suo ventre e cominciò a piangere.

“Perdonami Nadine, perdonami, perdonami, perdonami”. Singhiozzava strusciando la testa e le lacrime sul corpo di Nadine. Lei era immobile ma il suo viso cominciò a distendersi e due lacrimoni le corsero per le guance.

“Perdonami amore mio, perdonami per sempre, perdonami” ripeteva Giò singhiozzando.

Ora anche lei piangeva silenziosa, le sue mani scesero sulla testa di Giò e gliela carezzarono.

E fu il gesto.

Lui tirò su la faccia e si guardarono. E tutto successe. In silenzio e con frenesia Giò alzò la gonna di Nadine, le sfilò gli slip, se la mise a cavalcioni.

E venne furore, temporale, acqua, vento, fuoco, muro, penetra il muro, muro che crolla, vibrare insieme, lei che s'avvinghia, lo tira a sé, entrare, entrare, entrare, attrazione, repulsione, urlo. Schianto.

Un uragano che si ritira, che lascia dietro di sé i resti di ciò che fu, che li lascia insieme sul pavimento. Rimasero abbracciati stretti, come fusi, lei tremolava ancora, lui le baciava i capelli.

“Torni a casa?”.

“Non ancora”.

“Perchè?”.

“Perchè non sono pronta”.

“Cosa ci vuole per farti pronta?”.

“Tempo”.

“Quanto?”.

“Quello necessario”.

“Ti aspetterò”.

“Per quanto?”.

“Per sempre”.

“Hai fatto l'occhiolino a Ljuba”.

“Ma che stronza...sei gelosa!”.

“Si”.

“Sono contento”.

“E le hai dato il biglietto da visita. E pure lei. Cos'è questa storia di Pietroburgo?”.

“Un'idea di Aida. La gallerista”.

“So chi è Aida!”.

“Torna a casa con me”.

“No. Anzi vattene Giò prima che arrivi Marco”.

“Hai paura che mi meni?”.

“Si”.

“E che io meni lui no?”.

“No”.

“Mi dai per spacciato”.

“Si”.

Nadine rise e lo sbaciucchiò. Si alzarono e si ricomposero. Poi si separarono.

 

 

Ljuba camminava  avanti e indietro di fronte alla casa. Era elegante e nervosa, dentro un tubino nero e scarpe coi tacchi alti che risuonavano sulla pietra. Faceva per avvicinarsi al campanello, poi ci ripensava. Alla fine tornò alla macchina e aprì la portiera. Ma sentì un calore salirle dall'osso sacro. Richiuse la macchina e tornò alla casa. E questa volta suonò.

Giò ci mise un po' ad aprire. Rimase sulla soglia a guardarla. Non troppo sorpreso.

“Non credevo di rivederla così presto” le disse invece e la fece accomodare.

“Io avere proposta per te, io passare due giorni depressi dopo tua mostra. Io che conoscere me bene, non capire. Poi capire. Io volevo scultura di me, piccola, per tenere su mobile, guardare solo io. Pagare bene, tu lavorare su commissione, io so. Parlato con signora Aida” disse Ljuba un po' trafelata e tutto di corsa.

Giò la guardava concentrato.

“Lei vuole essere osservata invece di osservare. E' così?” chiese lui.

“Si” disse lei convinta “Esatto quello. Essere osservata”.

“Andiamo” le disse lui facendole strada. Scesero nello studio grande, pieno di materiale, di fogli, disordinato, con un palco rotondo appena rialzato dal suolo, un paravento appena vicino. La fece andare lì.

Le disse: “Si spogli”. E lei in fretta e un po' imbarazzata si spogliò dietro il paravento. Imbarazzo che se ne andò appena fu nuda. Aveva ancora un bel corpo, non se ne vergognava. Si piazzò sul palchetto come lui le ordinò.

Lui le disse: “Si giri” poi “Di fronte” poi “Di profilo” poi “Piegata” poi “In ginocchio” poi “Con le braccia alzate” poi “Con le braccia dietro” poi “Testa in su” poi “Testa in giù” poi “Sdraiata”.

Passò parecchio tempo a guardarle il corpo in tutte le posizioni, da tutte le angolazioni. Ljuba obbediva silente e reattiva.

Lui disse “Si sieda”. Lei prese una sedia e si sedette.

“Sull'orlo, in avanti”. Adesso Giò l'aveva di fronte, rigida come una scolaretta.

La guardò dritto negli occhi e le disse: “Apra le gambe”. Ma lei non ubbidiva.

“Vede Ljuba” lui si accese una sigaretta “Quando una donna vuole essere osservata vuole esserlo nella parte più intima. Della testa, del cuore, del corpo”.

Impaziente ripetè: “Apra le gambe”.

Lei le divaricò al ralenti, fin quando non furono aperte quanto lui voleva.

Lui spense la sigaretta, prese un foglio e cominciò a fare gli schizzi.

La grafite grattava sul foglio e calò in quest'ombra sempre più scura che divenne una fessura nera. Una fessura in cui la matita entrava, entrava, per poi uscirne e trovare la testa del clito, le piccole labbra, le grandi labbra.

Un raggio di sole batteva sul palco. Lui le disse di spostarsi

“Vorrei guardarla illuminata. Brava, così. Un po' più a sinistra. Un po' più centrale. Ok”.

Riprese a ombreggiare, riprese il chiaroscuro con la matita che saliva e scendeva frenetica. Fece altri schizzi, tutti diversi. Alcuni enormi, altri minuti. Alcuni deformati, un altro a forma di rosa. Uno con il clito più in rilievo, altri con un gioco di colori.

Rapido, con mano sicura, ne fece decine.

“Verrà fuori una piccola scultura della sua preziosa kiska” disse lui sorridendo “In ceramica dipinta”. Anche lei sorrise nel sentire la parola kiska.

“Bello” provò a dire e le uscì una voce strana. Era eccitata.

Ma lui continuò a disegnare. E lei odiò la sua professionalità. Odiò di essere lì, odiò la sua slealtà, odiò anche la sua eccitazione.Ma amò essere guardata, osservata, studiata fra le gambe. Le sue mani scesero e con le dita spalancarono la vulva.

Lui pensò: “Si sta offrendo senza più remore...”. E riprese a disegnare questa nuova versione.

“E' normale eccitarsi, c'è sempre una corrente di erotismo che corre fra un artista e la modella” le disse senza guardarla, continuando a disegnare. Lei annuì ma pensò che la corrente era a senso unico.

Giò fece gli ultimi disegni poi disse: “Può rivestirsi, abbiamo finito”.

Lei lo fece rassegnata e lentamente, dietro il paravento, mentre lui disponeva tutti gli schizzi sul tavolo.

Era affascinato dai suoi stessi disegni e quando lei finì di vestirsi glieli mostrò.

Ljuba ne fu entusiasta, ne scelse due: i più sfacciati, i più aperti, i più sensuali.

Poi se ne andò. E Giò pensò “Che casino”.

 

 

Nadine era pronta, Marco in mutande. Erano nella sua stanza, lui trafficava con lenzuola e coperte.

“Vestiti” gli disse lei “Fra un po' arriva Ljuba”. Nadine era elegante, borsa in mano, pronta per una serata fuori.

“Non esco. Sono stanco, salutamela” e così dicendo Marco s'infilò nel letto.

“Nooo! E' la seconda volta che ti defili. Cos'hai?”.

“Niente. Ho sonno”.

Suonò un clacson. Nadine andò ad aprìre la porta e gridò “Arrivo!”.

Ci provò un'ultima volta, senza convinzione.

“Sei sicuro?”.

“Vai Nadine. Certo che sono sicuro”.

E lei uscì.

Marco si alzò e andò in cucina per mangiare. Si fece un panino e cominciò a pensare. Nadine gli nascondeva qualcosa, erano tre giorni ch'era felice, quasi fosse quella di sempre, quasi avesse risolto. Ma non tornava da Giò. La odiava perchè si teneva un segreto. E lui si sentiva ignorato, tagliato fuori. E si sentiva solo. E lei aveva ragione, che senza desiderio non c'è vita.

“Io non desidero niente, nessuno” si disse amareggiato.

“O forse no. Desidero liberarmi dalla noia, dalla repulsione, dallo schifo: quello del caro amico, quello del divertiamoci a ogni costo, quello del buon avvocato, quello delle tante donne”.

Si aprì una birra.

“Ergo” si disse “Allontanarmi da Nadine; con Ljuba non c'è neanche bisogno; licenziarmi; andarmene.Ho voglia d'altro. Ho voglia di desiderare. Io desidero desiderare. Come dice lei. E lei ci riesce. Oh Nadine, quanto ti ho amata ma anche invidiata in quell'amore folle che avete voi due.

Lo vorrei anch'io. Che tu possa essere amata follemente, augurava Breton a sua figlia.

Non ne posso più di scopate inessenziali, di un lavoro che detesto, di gente improbabile. Domani le dico che parto. Le lascio la casa, può starci quanto vuole”.

Ritornò a letto sollevato, lesse un po' e spense la luce.

Tardi nella notte sentì Nadine rientrare. Faceva casino, era inciampata in qualcosa, rideva, era ubriaca. Gli dette fastidio. Aspettò che si addormentasse. Poi si alzò, si vestì e uscì a fare un giro. Si sentiva definitivamente solo. Domani le avrebbe detto che partiva.

 

 

Nadine entrò, la porta era sempre aperta. C'era silenzio. Giò era nel seminterrato. Lo raggiunse e lui sobbalzò. Poi si aprì in un sorriso beato: “Sei tornata!” le disse.

“Sono solo venuta a trovarti. Marco se ne va stasera. Dice per lavoro ma mi nasconde qualcosa; rimango a casa sua, va in Germania.”.

Giò la baciò a lungo poi tornò a quello che stava facendo.

“Bene” disse “Potrò venire in visita, voglio corteggiarti un po'”. Sorrise soddisfatto.

Lei cominciò a girare per lo studio mezzo vuoto e vide tutti gli schizzi piazzati sul tavolo.

Scoppiò a ridere.

“Chi è questa donna così concentrata sulla sua figa?” gli chiese.

“Segreto professionale” rispose lui

Lei lo guardò curiosa: “Se dici così allora la conosco. Dai, chi è?”.

Lui non disse niente. Lei riprese a guardare gli schizzi e ci provò: “Aida?” chiese.

Lui scosse la testa “Aida? Come ti viene in mente?”.

“E' che mi sembra così...così lussuriosa” disse Nadine riflettendo con la sopracciglia corrugate finchè non ebbe una intuizione.

Guardò Giò e disse: “Ljuba!”.

Lui non si trattenne e cominciò a ridere.

“Davvero?” chiese lei.

“Davvero” disse lui.

E le raccontò dell'incontro scultoreo accendendosi una sigaretta.

“E' venuta piena di tormenti, voleva solo essere guardata nuda. La scusa era una piccola scultura che ritraesse il suo corpo. Quando le ho detto di aprire le gambe lei l'ha fatto riluttante ma poi è andata oltre. Si è aperta la figa con le mani per mostrarmela meglio”. Lui lo disse divertito, lei lo guardava incerta.

“Come hai fatto a resistere? Perchè tu hai resistito, vero?” chiese Nadine inquisitoria.

“Vero, ma con fatica, come sempre. Sono un uomo Nadine! Mi ha fatto un po' pena. Lei crede di conoscersi così bene ma in realtà è poco cosciente delle sue voglie più scure. Tornerà, non solo perchè deve ritirare le due piccole sculture ma perchè vuole farsi guardare ancora. Non è arrivata fino in fondo, lo sento”.

“E tu lo farai? La farai arrivare fino in fondo?” chiese lei pensosa.

“Si” disse lui “E' parte del mio lavoro. Cogliere l'anima del modello e ridarla all'arte!”.

Lo disse con enfasi autoironica. Sebbene lui credesse in quello che faceva.

Lei rise e gli prese dalle mani la vulva che stava modellando, la guardò, la tastò, era di creta, gliela ridiede. Lui riprese a modellare.

Nadine si mise dietro a Giò ch'era seduto sullo sgabello. Gli si appiccicò addosso col corpo, avvinghiandosi a lui come un koala a un tronco d'albero.

A lui era sempre piaciuto che lo facesse, sentiva i suoi seni sulla schiena. Sentiva il suo amore.

“Temevo la tua gelosia, è una tua amica. Ma sei conciliante... come mai?” le chiese lui intanto che impastava  nuova argilla, guardandola curioso.

Lei alzò le spalle: “Perchè è una persona che mi fa ridere. Nel senso che mi mette allegria. Tutte le donne sognano d'essere guardate, anche fra le gambe. Soprattutto. Perchè lei non dovrebbe, con tutta la sua vitalità, sensualità... La perdono.

Ma a me non hai mai fatto schizzi così belli!”.

Lui sorrise e cercò una chiave. Aprì un cassettone.

Le disse: “Vieni a guardare” e lei andò. Era pieno di vulve in tutti i materiali e dimensioni. La sua. Lei scoppiò a ridere. Ne prese una in mano. Era piccola, in ceramica e smaltata di rosso.

Gli disse: “Non ho mai posato per te a gambe aperte”.

Lui la guardò sornione e le rispose: “Ti ho vista qualche volta a gambe aperte e poi ho le dita sensibili, piccola, oltre gli occhi”.

 

 

Fra Giò e Nadine fu il ritorno. Parlarono molto, scoparono di più. Ovunque Giò allungava le mani, ovunque lei faceva lo stesso. Nello studio, nel lettone, contro i muri, sul pavimento, nei campi, sulle panchine. Una volta andarono persino al lunapark, erano in vena di ricordi.

Li aveva cambiati quel tempo di dolore. Seppur breve era stato intenso; erano più coscienti, più teneri. E meno gelosi, meno paurosi di perdersi.

Giò tornò a leggerle poesie e lei a raccontare le sue storielle d'antropologa, a fargli le sue imitazioni di amici e nemici.

Avevano un arretrato di amore che chiedeva di essere vissuto.

Nadine però tornava tutti i giorni da Ljuba per l'ora di lezione.

Non era più gelosa di lei, sapeva ch'era alla ricerca di emozioni perdute. E provava gratitudine.

Ljuba era stata generosa, aveva scoperchiato quel vecchio segreto e lei se ne era liberata per sempre.

Ljuba le prendeva spesso le mani e gliele accarezzava, con qualsiasi scusa. Nadine se lo lasciava fare e percepiva ancora la sua dolcezza ma anche i sensi di colpa e la vergogna.

E Nadine pensò che voleva esserle amica com'era stata lei.

Ma come? Se non chiedendo a Giò di farla godere?

Giocò con questa idea. E le piacque assai. Era un po' come riconciliarsi con la sua gelosia, la sua possessività. Giocò con le immagini di quella idea. Poteva farlo.

Guardò gli occhi disperati di Ljuba e ne ebbe compassione, l'ebbe col cuore: Ljuba era sola. Solissima.

Quando tornò a casa spiegò tutto questo a Giò, ma lui s'incazzò.

“Non mi piace, puzza d'imboscata. E se ti perdo per scoparmi una che non mi è neanche simpatica? Non sai mai cosa  può smuoverti dentro, tu un po' pazza lo sei, ti piace giocare col fuoco”.

“Gioco con te...”.

“NO, non mi va. Che ti frega di Ljuba? Lasciala godere da sola, perchè devo essere io il suo vibratore?”.

“Perchè lei tornerà per il tuo vibratore”.

Nadine rise, era comico, lei che insisteva e lui che resisteva.

Alla fine gli disse: “Fai quello che ti pare. Ma se il tuo cazzo vuole, fallo pure giocare. Non te lo rinfaccerò mai, ti do la mia parola”.

Lui fece solo un gesto di fastidio e cambiarono argomento.

 

 

Questa volta Ljuba prese un appuntamento per telefono. Quando arrivò davanti la casa di Giò si sentì stringere la carne fra le gambe. Lui venne ad aprire e la portò veloce nel sotterraneo. Lei si mise sul palco come la volta prima e si spogliò senza andare dietro al paravento. Lui si sedette e prese fogli e matita.

Le disse: “Si metta a carponi”. Lei non capì e lui fece: “Come un cane” e lei capì.

“Non così” s'irritò lui “Voglio vedere la sua kiska non la sua faccia”.

Lei si rigirò.

Lui cominciò a darle ordini. “Alzi il culo” poi “Distenda le braccia” poi “Allarghi le gambe” poi “Le stringa” poi “Come un cane” poi “Come una cagna...”.

A lei sfuggì un rantolo.

A lui diventò duro. E questa volta non si fermò.

Si alzò e l'avvicinò, era bagnata e pulsante. La penetrò. Lei urlò e cominciò a venire. E poi fu un movimento selvaggio, lei continuava a venire in ondate ravvicinate. E durò a lungo perchè lui non ci riusciva.

“Dài che ti faccio arrivare fino in fondo” pensò Giò spingendosi dentro.

E fino in fondo la fece arrivare.

Lei crollò finalmente esausta e lui le venne fuori, sulla kiska. C'era riuscito.

Scese dal palco, si ricompose e riprese rapidamente il blocco dei disegni.

“Adesso stia ferma” le disse “Col culo in alto , voglio disegnare la kiska ricoperta di sperma”. Lei si sforzò di divaricare di più le gambe. E disse “Si!”con la voce liberata.

In quel momento Nadine entrò di soppiatto e si attaccò al corpo di Giò. Guardò lo sperma che colava.

Diede un bacio sul collo a Giò. Lui sorrise.

Gli chiese all'orecchio: “Le hai scacciato il demone?”.

“Non lo so” disse lui a voce alta “ma è soddisfatta”.

Ljuba si girò e vide Nadine attaccata a Giò.

Le venne il capogiro e rimase immobile e muta. Non sapeva cosa fare e non fece niente.

“Ciao Ljuba” disse Nadine con morbidezza.

“Ciao Nadine” le rispose lei rimanendo bloccata e con un filo di voce. E senza guardare indietro.

Giò fece ancora molti schizzi, diede ancora molti ordini, Ljuba li eseguì e tutto rimase fermo. Sembrava d'essere usciti dal tempo per entrare nel tempo dell'arte.

Finalmente lui disse: “Si può rivestire Ljuba”.

Tutti e tre guardarono i disegni, muti e concentrati. Erano vivi, erotici. E Ljuba scelse l'ultimo, il più pornografico. Poi salirono di sopra.

“Ti devo spiegare” disse Ljuba prendendo le mani di Nadine.

“Non mi devi spiegare niente, so tutto” rispose lei facendole l'occhiolino.

“Allora grazie” si rilassò Ljuba finalmente sorridendo.

 

 

Sono seduto su uno sgabello. Ho gli occhi chiusi. In un campo nero vedo delle luci, sembrano lampi.

Ricordo. Afferro qualcosa di morbido. Ricordo di più.

Riapro gli occhi. Metto lo straccio in una bacinella d'acqua, ci metto anche le mani.

Sento il calore, il colore della tua pelle. Sento l'odore di prato bagnato.

Prendo del verde. Prendo del rosso. Prendo del bianco. Prendo del giallo.

Non prendo il pennello. Uso lo straccio.

Da sinistra scendo in basso verso il centro, vedo i tuoi piedi. Risalgo. Sento i tuoi fianchi. Salgo dal pube, il ventre si profila. Avvicino lo sguardo.

E' candida la pelle, aggiungo del bianco, aggiungo del rosso ma l'odore di erba non mi lascia.

Rendo più intenso il verde. Ma c'è tensione sotto il verde. C'è tensione nell'intero corpo. E' freddo. E' umido e sta perdendo peso. Si alleggerisce e le forme sembrano liberarsi con violenza. Vengono avanti, devo prendere il nero. Tracciare subito questo contorno, dargli forma. I fianchi, i fianchi, quello destro è più alto, lo correggo.

No, non ti faccio entrare, devi rimanere sulla soglia. No, non ho finito, bagnati di più i capelli.

Prendo il giallo, prendo il marrone. Adesso prendo un pennello.

Mi avvicino al margine e la tensione aumenta, in alto, dov'è il tuo volto. Grano tagliato.

Guance, occhi, bocca e naso. Quelle labbra carnose, invitanti.

Nero, nero, nero. I tuoi occhi. Nero totale. Ma una luce saetta, li attraversa.

I tuoi occhi mi cercano, mi trovano. Le tue pupille sono dilatate. Socchiudo di nuovo i miei e aspetto.

L'impulso di completare la pittura mi viene dalle mani.

Ma so che sarà solo una traccia di quello che tu sei. Per quanto calda, sensuale, per quanto sembri che tu voglia entrare.

Una traccia, niente di più.

 

Neo si allontanò dalla porta per guardarla meglio. Rise fra sé. Gli piaceva. Era bella.

Era là. Era lei.

In quel caftano fradicio, verde, attaccato al suo corpo. In quei capezzoli eretti.

Le sue borse sarebbero rimaste sempre lì, sull'orlo dell'uscio. E anche lei ci sarebbe rimasta. Bella, candida, vogliosa.

“Posso dipingerti a memoria” le aveva detto. Lo aveva fatto.

Era la porta più fantastica, era una porta vera, solida, di legno. La sua. E lei, lei la vedeva entrare.

L'aprì. Uscì e rientrò. La riguardò. Trasudava soddisfazione, pensò a lei fra le sue braccia. Andò a lavarsi, si cambiò. Tornò a guardare la figura sulla porta.

Odorava di olio, si avvicinò, le disse: “Nadine, quando torni?”. Baciò la bocca sul legno. Aprì la porta e la richiuse dietro di sé. Uscì per andare a mangiare, lei era rimasta dentro, sulla soglia della sua casa. Elena Eluchans

 

 

 

 

                                                    

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